L’Indice Glicemico (I.G.) è una classificazione qualitativa dei carboidrati che, dal 1981, anno della sua divulgazione, ha rappresentato per diversi anni l’unico criterio di orientamento nel definire il potere ingrassante di uno zucchero. L’attenzione alla qualità dei carboidrati si ebbe quando fallì la politica americana di demonizzazione dei grassi.
Tra il 1981 e il 1991 il governo americano, tramite una campagna educativa, riuscì a ridimensionare le calorie assunte pro capite, ma solo a scapito dei grassi alimentari. Senza alcun veto quantitativo o qualitativo sui carboidrati. Risultato? In quel famigerato decennio gli obesi non solo non diminuirono, ma crebbero del 18%. Si fece strada il sospetto che non fossero solo i grassi a creare problemi di linea e di salute. E si cominciò a indagare nel campo degli zuccheri. Quando si mangiano dei carboidrati ( una patata, della pasta, una mela, delle lenticchie, un dolce….), questi vengono assorbiti sotto forma di glucosio. L’intestino distribuisce il glucosio al sangue. Il traffico di glucosio nel sangue viene gestito, come già visto, dall’insulina. Il destino del glucosio ematico dipende dalle scorte di glicogeno già presenti nell’organismo: energia di pronto impiego, glicogeno di riserva o grasso in rapporto alle esigenze contingenti.
La velocità con cui un carboidrato si trasforma in glucosio una volta ingerito viene espressa da un numero, detto Indice Glicemico. L’I.G. comprende dei valori che vanno da 100 (per il glucosio) a 0 ( per carne, latticini, ortaggi e alcol ). Tanto più si mangeranno cibi ad alto indice glicemico, tanto più massiccio sarà l’intervento dell’insulina, quanto più facile sarà ingrassare ( per un sedentario ) e avere problemi di salute. Attualmente gli scienziati sostengono che una glicemia elevata ed il conseguente aumento della secrezione di insulina sono i più importanti fattori di rischio per l’ipertensione arteriosa e le patologie cardiovascolari (“La rivoluzione del glucosio” di Jane Brand Milller-Edizione Mondolibri, 2005 )”
Classificazione dei cibi sull’indice glicemico
Alto I.G. | >70 |
Medio I.G. | 56-69 |
Basso I.G. | <55 |
L’unica tabella attendibile è la celebre International table of glycemic index and glycemic load values (Foster-Powell K, Holt SH, Brand-Miller JC. Human Nutrition Unit, School of Molecular and Microbial Biosciences, University of Sydney, NSW, Australia.) pubblicata su Am J Clin Nutr. 2003 Apr; 77(4): 994
Il fruttosio ha una risposta glicemico-insulinica ben al di sotto di quella dello zucchero da cucina (saccarosio). E un potere dolcificante del 30% superiore al saccarosio. La logica suggerirebbe di seguire alimentazioni a base di fruttosio. Purtroppo la ricerca ci deve contraddire, dato che diete ad alto contenuto di fruttosio (50 gr al giorn ) alzano i trigliceridi e gli acidi urici.
Inoltre favorirebbe un maggior introito calorico a causa della soppressione di insulina e leptina e della maggior produzione di grelina. Insomma, il fruttosio, col suo basso indice glicemico, tiene molto bassa l’insulina che, a sua volta, deprime la leptina = appetito. Come aggravante salirebbe la grelina che stimola l’appetito.
Non a caso l’American Diabetes Association (ADA) ha bandito il fruttosio nei menù per diabetici. Dunque non ha senso demonizzare un alimento ad alto indice glicemico o celebrare quello a basso indice glicemico. E’ sempre un gioco di quantità in cui, per esempio, saranno meno dannosi 20 gr di saccarosio di un dolce, rispetto ai 50 gr di fruttosio contenuti in 1 kg di mandarini.
Una dieta ricca di fruttosio pare legata anche a prodotti terminali di glicazione avanzata e stress ossidativo il che prelude ad aterosclerosi e danni vascolari. Inoltre, la consuetudine dietetica con questo zucchero ha mostrato anche una resistenza insulina a livello del fegato e allo sviluppo di un fegato grasso non alcolico.
Il controllo della glicemia attraverso l’alimentazione è nato da un’esigenza di natura clinica: migliorare la qualità della vita del diabetico. Poi si è constatato che gli effetti positivi della “calma glicemica”potevano essere patrimonio anche della popolazione sana. Sia a scopo preventivo nei confronti delle malattie metaboliche e delle disfunzioni cardiovascolari, sia per chi voleva mantenere o raggiungere la linea.
Controllare l’Indice Glicemico va a nostro vantaggio perché:
- riduce la secrezione d’insulina nel corso della giornata;
- la digestione più lenta dei carboidrati riduce il senso della fame, che non sopravviene dopo poco tempo dopo il pasto, come avviene con i cibi ad alto indice glicemico. Con questi ultimi si instaura il regime della “fame continua”: il rapido abbassamento di zuccheri provocato dalla massiccia cascata di insulina in risposta all’alto I.G. dei cibi scatena di nuovo la fame verso cibi che rialzano velocemente la glicemia. Dunque, mangiare cibi ad alto indice glicemico, per un sedentario, produce solo ripetuti e rovinosi assalti ai cibi molto zuccherini;
- protegge il cuore. Alti picchi glicemici sono associati a stress ossidativo, cioè ad un’anomala produzione di radicali liberi dannosi per il cuore e per le coronarie ( vasi che vascolarizzano il cuore);
- mantiene l’elesticità e la flessibilità dei vasi sanguigni;
- protegge dall’aterosclerosi ( aumento della rigidità della parete arteriosa ) perchè riduce la formazione di depositi di grasso e di placche lungo le pareti arteriose;
- riduce la formazione di trombi ( coaguli di sangue ), veri e propri “tappi” per le arterie che sono causa di infarti.
Picchi cronici di glicemia favoriscono il legame tra zuccheri e proteine in un processo chiamato glicazione e che sta alla base della formazione degli AGE (prodotti finali della glicazione avanzata). Gli AGE, dopo una serie di reazioni, comportano danni di natura infiammatoria (come l’ossidazione LDL) e proliferativa (come la sovrapproduzione di collagene che si accumula dentro le cellule e che ha come terminale anche dei danni renali = nefropatie). Un’altra e non meno subdola conseguenza della glicazione è quando il legame si instaura tra lo zucchero e l’emoglobina da cui derivano complicanze nel trasporto dell’ossigeno.
Come dimostra uno studio illustrato su “Pediatrics” e condotto su un gruppo di preadolescenti, una colazione a basso indice glicemico fa da modulatore dell’appetito a pranzo al quale si arriva senza una fame smodata.
Una recente revisione di studi ha messo in relazione diete a basso indice o carico glicemico e diete classiche nel trattamento di persone obese e sovrappeso: i migliori risultati in termini di peso corporeo, massa grassa, BMI, colesterolo totale e colesterolo LdL sono stati ottenuti grazie alle diete a basso indice e carico glicemico.
Vari studi confermano che il metabolismo del glucosio e la sensibilità all’insulina (o la resistenza all’insulina) vengono migliorati fondamentalmente da allenamenti con resistenze, i pesi per intenderci, oltre che dalla classica attività aerobica. (Leggi anche: “I carboidrati nello sport? Fondamentali.“)
Abbiamo visto che l’I.G. è una valutazione qualitativa solo nei confronti dei carboidrati e che non considera la presenza di grassi, soprattutto saturi o idrogenati. Quindi non basta un moderato I.G. per assolvere un cibo. Facciamo l’esempio dei biscotti. Essi hanno un I.G. relativamente basso perchè dotati di una buona presenza di zuccheri (che si fissano all’acqua e rallentano lo svuotamento gastrico) e di grassi ( che rallentano l’assorbimento intestinale). Ciò riduce a metà il numero di granuli gelatinizzati (molecole di amido rese dalla cottura più esposte all’azione digestiva). Ma questo non toglie nulla al potenziale ingrassante dei biscotti a causa della presenza di grassi.
Carne, pesce e uova hanno un I.G. pari a 0, essendo quasi del tutto privi di carboidrati. C’è, però, una considerazione da fare sui latticini che, pur essendo anch’essi poveri di carboidrati (lattosio), hanno una risposta insulinica (indice insulinico) 3 volte superiore al loro I.G. medio (30-50). Una risposta sembra ricercarsi nella natura “insulinogenica” delle proteine del latte. Il latte serve per la crescita dei mammiferi e il fatto che stimoli la produzione di grosse quantità di insulina ( ormone anabolico ) pur avendo un basso I.G. lo renderebbe funzionale al suo obiettivo.
Il Carico Glicemico
L’ampiezza con la quale la glicemia aumenta e rimane elevata dipende da 2 fattori : uno è l’Indice Glicemico, che è solo una valutazione qualitativa dei carboidrati, l’altro è la quantità dei carboidrati presenti in una porzione di alimento. Dunque, una valutazione quantitativa.
Per stabilire la risposta glicemica di un alimento e la risposta di insulina, è stato necessario combinare in un’unica formula sia la qualità che la quantità di carboidrati. Ecco che nel 1997 Walter Willet e colleghi della Harvard hanno definito il Carico Glicemico che viene calcolato moltiplicando l’Indice Glicemico dell’alimento per la quantità di carboidrati presenti nella porzione e dividendo x 100
Carico Glicemico = I.G. x gr di carboidrati presenti / 100 |
Esempio : Mela = I.G. 40 con 15 gr di carboidrati = 40 x 15 / 100 = 6
Patata = I.G. 90 con 20 gr di carboidrati = 90 x 20 /100 = 18
Come è possibile notare, il carico glicemico di una patata è 3 volte superiore a quello di una mela, ciò significa non tanto che la risposta glicemica sia 3 volte superiore, quanto che lo sia la richiesta di insulina per riportare la glicemia a livelli basali.
Valori del Carico Glicemico | |
Alto | >20 |
Medio | 11-19 |
Basso | <10 |
Dunque “il Carico Glicemico esprime la risposta glicemica e la richiesta di insulina in seguito metabolizzazione di un alimento contenente carboidrati (Jennie Brand-Miller )”. Esso esprime una misura della qualità e della quantità dei carboidrati presenti in un pasto o in una dieta. L’indice glicemico diventa un punto di partenza in un percorso dove il punto di arrivo non è la separazione ossessiva tra carboidrati assolutamente buoni e carboidrati assolutamente cattivi, ma il principio del dosaggio, della porzione. Lo zucchero, per esempio, ha un alto indice glicemico. Come valore assoluto. Dunque da bandire, se la valutazione si fermasse qui. Ma in realtà innocuo se subordinato anche al principio di quantità. Esempio: un cucchiaino di zucchero concentra 5 gr di carboidrati per un I.G di 70.
Calcoliamone il carico glicemico :
70 x 5 / 100 = 3,5. Un Carico glicemico in linea col principio della salute. Ma se i cucchiaini di zucchero salgono a 5 ( contenuto normale per le bibite gasate o certi integratori salini ) ecco che le cose assumono un’altra prospettiva :
70 x 25 / 100 = 17,5. Siamo già molto vicini all’orbita della iperinsulinemia. Cosa accettabile dopo un allenamento intenso. Ma per il sedentario? O per chi si allena ad intensità molto basse?
Diabete, controllo del peso, BMI, malattie cardiovascolari e alcune forme di tumore (endometrio e colon retto) non sembrerebbero legate tanto ad un regime dietetico a basso apporto di carboidrati, bensì ad un regime dietetico ad alto indice e carico glicemico. Il che non significa, come abbiamo visto, escludere gli alimenti ad alto I.G., ma semplicemente moderarli e combinarli con quelli a basso I.G.
Tenere sotto controllo la glicemia e l’insulinemia rappresenta una polizza assicurativa contro malattie cardiovascolari (arteriosclerosi, malattie coronariche, infarti, ictus), il diabete di tipo II e l’innalzamento del colesterolo cattivo, l’LDL. Anche La massa corporea, il Body Mass Index e la massa grassa traggono grossi benefici da una alimentazione a basso indice e carico glicemico rispetto alle altre diete.
Lo sportivo si trova in un contesto metabolico e ormonale distante anni luce dal sedentario: svuota giornalmente le scorte di glicogeno muscolare ed epatico a causa di allenamenti molto intensi e tanto maggiore è l’intensità di un esercizio, quanto più marcato sarà l’utilizzo di benzina ad alto rendimento cioè gli zuccheri. Lo sportivo, a differenza del sedentario, si trova in un’emergenza perenne di zuccheri ed è autorizzato a fare di tutto per ripristinare rapidamente il suo corredo glicogenico.
E quale strategia migliore se non assumere, dopo gare o allenamenti intensi, cibi ad alto indice glicemico?
In questo caso la pronta risposta insulinica sarà solo di beneficio per il soggetto al quale spalancherà le porte cellulari: glucosio e aminoacidi entreranno in abbondanza nelle cellule muscolari ed entreranno con tanta più determinazione quanto più precoce dal termine dell’attività sarà il reintegro. Un recupero che avrà un valore aggiunto se ai carboidrati ad alto indice glicemico si uniranno delle proteine. Il recupero delle scorte va effettuato per tutta la giornata con pasti ogni due ore, ma è cruciale il pasto poco dopo il termine della gara o dell’allenamento ad alta intensità (più del 65% della massimo impegno del soggetto e per almeno 90 minuti). Solo allora le finestre enzimatiche ed ormonali della crescita muscolare e del recupero del bottino glucidico perduto sono completamente spalancate.