Negli ultimi anni si è registrato un costante aumento dei casi di sensibilizzazione a un numero sempre crescente di alimenti. Le domande che ci poniamo sono molteplici: si potrebbero prevenire queste forme di intolleranza se non addirittura di allergia? Cosa devo fare per diagnosticarle? Le etichette dei cibi con le indicazioni degli alimenti che acquistiamo, come dovrebbero essere?
Per rispondere a queste domande ci vengono in aiuto le Linee guida dell’European Academy of Allergy and Clinical Immunology (EAACI) per l’allergia alimentare e l’anafilassi, presentate nei giorni scorsi a Milano durante il World Allergy and Asthma Congress 2013. Analizzando tutti gli studi sull’argomento, gli esperti hanno creato un vademecum per medici e malati, in continuo aumento purtroppo.
2 milioni. Ecco quanti sono gli italiani che soffrono di allergia verso uno o più alimenti, probabilmente anche per il fatto che nel corso degli ultimi decenni abbiamo iniziato a consumare cibi che non facevano parte della nostra alimentazione quotidiana (vedi sesamo e soia); i bambini ipersensibili a latte, uova, nocciole e altri cibi, stando ai dati EAACI, sono raddoppiati negli ultimi 10 anni, arrivando a sfiorare le 600mila unità.
Macosa fare?
Con queste cifre ci si domanda se è possibile, e come, invertire la rotta prevenendo le allergie. Maria Antonella Muraro, segretario generale EAACI e responsabile del Centro di riferimento regionale per lo studio e la cura delle allergie e delle intolleranze alimentari del Dipartimento di Pediatria dell’Università di Padova, spiega «L’allattamento al seno esclusivo nei primi 4-6 mesi di vita del bambino le riduce; invece le restrizioni alla dieta della mamma in attesa non servono. Se l’allattamento al seno non è possibile e il bambino è ad alto rischio, ad esempio perché genitori o fratelli sono allergici, è utile usare latte vaccino idrolizzato, ipo-allergenico. Dopo il quarto mese compiuto si possono inserire i primi cibi, mentre ritardare o anticipare l’esposizione ad alimenti a rischio come uova o latticini, una volta iniziato lo svezzamento, non ha effetto sulla prevenzione delle allergie».
Durante il congresso di Milano, degli studiosi hanno ipotizzato che le allergie possano essere “programmate” prima della nascita del bambino, in conseguenza delle condizioni di vita della mamma che influirebbero sui processi biochimici in grado di modulare l’attività del sistema immunitario del bimbo. In questo modo il piccolo sarebbe ad alto rischio di allergie perché le sue difese immunitarie risulterebbero più inclini a reagire in modo errato a sostanze innocue, come latte o uova. La dottoressa Muraro sottolinea che queste sono solo delle ipotesi e che per il momento non cambiano le raccomandazioni alle donne in attesa raccolte nelle Linee guida.
E le etichette?
All’interno delle linee guida ci sono anche molte proposte indirizzate all’industria alimentare per migliorare le etichette degli alimenti: la dicitura “può contenere”, usata dai produttori di loro iniziativa e con criteri variabili, può indicare diversi livelli di contaminazione e quindi di rischio. Una codifica univoca di queste indicazioni aiuterebbero le persone allergiche a capire se e quanto ogni cibo sia realmente pericoloso.
Conclude la dottoressa Muraro:«Un’indagine discussa al congresso rivela che praticamente nessun paziente allergico “osa” acquistare un prodotto la cui etichetta lasci un margine d’incertezza sul contenuto in allergeni. L’etichettatura europea è di buon livello e molte grandi aziende danno informazioni precise, ma le frasi che i produttori appongono per tutelarsi restringono ulteriormente, e non poco, le scelte alimentari degli allergici. Dobbiamo fornire indicazioni anche per i cibi non confezionati e soprattutto tradurre in un livello di rischio la dicitura “può contenere”». Ma chi sono gli allergici più a rischio? «Quelli che non tollerano la frutta a guscio: si tratta di un’allergia persistente, che espone spesso a shock; inoltre le nocciole vengono lavorate da molte aziende e possono trovarsi in tanti alimenti».